Dem’ znanij, la Giornata della Conoscenza, è una delle poche ricorrenze sovietiche che i russi hanno mantenuto, e coincide proprio con il primo giorno di scuola che si inaugura contemporaneamente in tutto il paese. Un giorno di festa al quale partecipano tutti, bambini e insegnanti, genitori e parenti, un giorno speciale in cui tutto e tutti sono tirati a lucido, tanta è l’importanza che gli viene attribuita. Insomma una festa aperta a chiunque, con tanto di cerimonie, discorsi e parate. E la Scuola n. 1, rinomata in tutta la regione, era il fiore all’occhiello di Beslan.

Era il 1* settembre 2004 quando un gruppo di terroristi, bene armati e accuratamente addestrati, fece irruzione nella scuola sequestrando oltre milleduecento persone. Alcuni tentarono di nascondersi, ma vennero scoperti quasi subito. Studenti, parenti insegnanti e personale di servizio vennero ammassati come greggi nella palestra minata e stipata all’inverosimile: nessuno poteva sfuggire alla furia omicida degli uomini in mimetica. Aggressivi e impazienti, urlavano e sparavano in aria, imponendo il silenzio e decretando uno “sciopero della fame e della sete” forzato.

La polizia locale, disorientata e impreparata ad un simile attacco, ci mise un po’ prima di arrivare sul luogo. Nel frattempo gli attentatori avevano espresso la loro richiesta: ritiro immediato dei russi dalla Cecenia!

I media iniziarono a diffondere la notizia con i dati forniti dalle autorità: centocinquanta ostaggi, saliti poco dopo a trecentocinquanta. Infuriati, i terroristi decisero di fare quadrare i conti trucidando tutti gli uomini, prima facendo brillare le cinture esplosive di due donne che componevano il loro gruppo, e poi finendo la carneficina a colpi di mitra.

Nel pomeriggio arrivarono anche le squadre dei nuclei antiterrorismo, ma a posteriori alcuni funzionari dichiararono che tutta l’operazione fu gestita male perché non ci fu un vero coordinamento e nessuna concertazione tra le forze in campo che dovevano gestire la crisi.

Il secondo giorno l’aria viziata della palestra era diventata asfissiante e la sete inizia a fare cedere le persone. I bambini erano allo stremo e cominciano a svenire mentre tra gli adulti avviava a serpeggiare la sfiducia in una pronta risoluzione. Senza nutrimento il corpo si accascia, e senza speranza la mente vacilla. A metà pomeriggio la situazione era incandescente. All’esterno la temperatura, sempre più rovente, arrivava a toccare i quaranta gradi, mentre all’interno della palestra stava divenendo insostenibile, con i bambini più piccoli che lentamente perdevano conoscenza. Alcuni genitori, troppo stremati per avere paura, imploravano i terroristi di concedere di bere almeno ai bambini, ma le uniche risposte erano raffiche di mitra in aria e minacce di fucilazioni. Anni dopo un’insegnante ha dichiarato che l’arsura era così atroce da provocare delle allucinazioni e che non avrebbe mai dimenticato la sensazione di quella sete.

Mentre i vertici dell’FSB (l’ex KGB, ovvero l’agenzia per la sicurezza interna alla Federazione Russa) e le forze speciali cominciavano a paventare un’irruzione forzata, facendo arrivare perfino dei carri armati, le autorità locali e la polizia puntavano ancora il dito verso una trattativa. La situazione sembrava sbloccarsi quando il capo dei terroristi, chiamato il Colonnello, decise di fare entrare nella scuola un mediatore di sua fiducia, l’ex presidente dell’Inguscezia Ruslan Ausev. Ma dopo una breve trattativa a cui tutti guardavano con speranza, Ruslan riuscì a fare liberare soltanto quindici neonati e undici madri. Alcune di quelle donne dovettero scegliere se salvarsi insieme al proprio infante, condannandosi ad un’eterna tortura, oppure rimanere insieme ai figli maggiori, condividendone l’incerta sorte.

All’alba del terzo giorno la situazione nella palestra era precipitata. Nessuno riusciva più a rimanere in piedi e, in uno spettacolo pietoso, bambini e adulti si addossavano gli uni agli altri, intrecciandosi e stringendosi come in una morsa. Era quello il fatidico giorno, lo sapevano bene tutti, anche i terroristi che divenivano sempre più nervosi, irascibili e aggressivi. Storicamente i vertici russi non accettano mai condizioni proposte da terroristi e le forze speciali assaltano sempre il terzo giorno.

All’improvviso uno scoppio che nessuno si aspettava in quel momento fece tremare le pareti della palestra. Poco dopo una seconda esplosione, molto più violenta, provocava uno spostamento d’aria tale da trasportare detriti e schegge in ogni punto della palestra. Le forze speciali avevano fatto irruzione e il fuoco incrociato con i terroristi falcidiava indiscriminatamente chiunque. La situazione era confusa e sembrava sfuggita di mano sia alle forze speciali, sia ai terroristi che nella concitazione cercavano di radunare in sala mensa le persone ancora in vita.

Il terzo scoppio sconquassò nuovamente la palestra e il tetto prese fuoco. Le forze speciali riuscirono ad entrare dai tubi dell’aerazione e incitavano le persone a scappare. Non tutti ce la facevano e molti rimasero imprigionati tra le fiamme che li divorarono, carbonizzandone i corpi. Il conflitto tra le due fazioni si spostò nell’attigua sala mensa.

Gli scontri si protrassero fino a notte fonda, poi tutto cessò e l’attività frenetica si spostò negli ospedali della zona dove erano stati trasportati i superstiti. Ma le strutture erano insufficienti per ospitare i feriti di una catastrofe di tali proporzioni, così le persone meno gravi vennero dimesse in giornata, mentre più di un paziente si spegneva sul tavolo operatorio. Invece i soggetti in condizioni critiche proseguirono il loro calvario negli ospedali meglio attrezzati di Mosca, dove vennero trasportati nel tentativo di salvare qualche altra vita.

Il presidente Putin visitò le corsie dell’ospedale di Beslan il giorno successivo alla tragedia, ma si rifiutò di andare alla scuola e di incontrare i parenti delle vittime.

Alla fine il bilancio contava trecentotrentaquattro vittime, di cui centottantasei bambini; i feriti gravi erano oltre ottocento, in maggioranza bambini.

In questa infausta vicenda sono ancora troppi gli interrogativi rimasti aperti, irrisolti, le incertezze e le ombre che ammantano l’accaduto, le domande che tutti, proprio tutti si pongono.

Secondo le autorità il commando di terroristi coinvolti nell’operazione era composto da trentaquattro unità; trenta uomini sono rimasti uccisi durante l’assedio, uno è stato fermato mentre cercava di fuggire ed è stato pestato a morte dalle persone che affollavano i dintorni della scuola, soltanto uno è stato preso vivo e processato, e gli altri che fine hanno fatto? Molti ex ostaggi sostengono ancora oggi che gli attentatori fossero molti di più, forse addirittura una settantina, e che sarebbero riusciti a sfuggire all’arresto nel caos generale, ma le autorità hanno sempre negato; però a Beslan quasi nessuno crede più alle dichiarazioni ufficiali.

Come è stato possibile che un autocarro pieno di uomini armati incappucciati abbia impunemente raggiunto la scuola? Perché non si è neppure tentato di trattare con i terroristi? Che cosa ha scatenato quella prima esplosione? Perché domare l’incendio sul tetto ha richiesto tanto tempo? E più in generale viene da chiedersi che cosa rende il Caucaso un posto così ingovernabile, una regione perennemente in conflitto, una polveriera sempre pronta a scoppiare?.

 

Sembra tutto sbarrato quando arriviamo, però scopriamo presto che il cancello rimane sempre aperto, proprio come un mausoleo di guerra. Entriamo quasi in punta di piedi, in silenzio e nel silenzio, non per un qualsiasi timore, ma per istintivo rispetto. Il luogo sembra deserto, ma il vero deserto che attanaglia il cuore è solo quello interiore.

È mattina presto e la temperatura è ancora accettabile. Per un po’ girelliamo nel piazzale della scuola. Su una parete di granito rossastro che costeggia il muro di cinta sul retro della scuola sono stati incisi in alfabeto cirillico i nomi di tutte le persone scomparse nella tragedia. A fianco di ogni nome c’è la data di nascita. Alcuni bambini avevano appena sei anni quando sono stati uccisi. In mezzo al praticello un architrave sostiene una campanella, simbolo dell’inizio di ogni lezione scolastica, ma oramai squilla solo una volta, ogni anno alle nove e un quarto del primo settembre, tra i singhiozzi disperati delle madri orfane dei propri figli.

Decidiamo di addentrarci nella palestra. Una struttura metallica avvolge come una tenda dorata i ruderi dissacrati, quasi a proteggerne l’integrità. Qui il silenzio diventa assordante. Era un luogo di educazione, oggi è solo un cumulo di macerie abitate da dolori. Al centro campeggia una croce ortodossa in legno; alla base qualcuno ha deposto un mazzo di rose rosse. Il tetto è stato ricostruito dopo che l’incendio, a seguito delle deflagrazioni, lo aveva distrutto. Il pavimento in parquet è ancora in parte dissestato.

Attaccate alle pareti e appoggiate sui davanzali delle finestre, catturano l’attenzione e sovrastano qualsiasi scena le fotografie dei bambini morti. Sembrano uscite da un annuario scolastico, alcuni sorridono in posa, almeno in questi primi piani che straziano il cuore. Molti genitori hanno lasciato giocattoli e pelouche che a quell’epoca caratterizzavano i loro figli, in fondo in casa non occorrono più. Una spalliera ginnica  ancora in piedi sembra fungere da testimone oculare dell’eccidio. Piccoli angioletti bianchi di ceramica pendono dagli scheletri arrugginiti dei canestri da basket simboleggiano le anime che ancora aleggiano tra queste mura.

All’improvviso diventa pesante anche alzare la macchina fotografica perché si ha l’impressione di essere irrispettosi. Poi tutto si anima. Iniziano ad arrivare le persone in visita e le madri che non perdono occasione per tornare a rivedere il luogo dove hanno perso per sempre i propri figli. È difficile staccarsi dal dolore quando l’affetto è così profondo. È difficile, anche dopo venti anni.

“Veniamo da Vladikavkaz”. “No, da che paese arrivate?”, ci chiede una signora con voce dolce. “Dall’Italia”, rispondiamo. “Ah, gli italiani, ci hanno aiutato tanto”. Il vestitino a fiori sembra contrastare il volto segnato dalla tristezza. Gli occhi che ci fissano sono gonfi e mi domando come si fa ad avere ancora lacrime dopo tutto questo tempo. Eppure è così, e in un abbraccio solidale la donna scoppia a piangere, nascondendosi dignitosamente dietro una spalla mentre una lacrima le scorre dentro una ruga del viso come un fiume in piena tra due teneri argini.

La scuola non sarà più una scuola. Lo dice chiaramente quel muro di mattoni che chiude l’ingresso principale. Entriamo dall’ingresso laterale. Il corridoio è crivellato dai fori dei proiettili che non sono stati chiusi, sarebbe come stuccare la memoria, e qui non vuole dimenticare proprio nessuno la storia. Alcune volontarie stanno pulendo dei vetri delle finestre appena sostituite, e questo è tutto ciò che può essere ripulito.

Anna è il nostro contatto. La cerchiamo tra la folla che sta lentamente riempiendo il luogo. “Purtroppo questi sono i giorni dell’anniversario e qui viene molta più gente del solito”, ci spiega, quasi scusandosi della pacifica confusione causata dalla folla, in un italiano assolutamente perfetto. Ha studiato la nostra lingua all’università e si è perfezionata durante un periodo di studio nel nostro paese. Anniversario, questa parola continua a rimbalzarmi nella testa, ma proprio non riesco ad associarla al ricordo di una strage. Anna è una ragazza siberiana che si è trasferita da queste parti con il marito per crescere i figli in un luogo tranquillo. Sembra un paradosso, e invece ci spiega che, malgrado tutto quello che è successo, qui è ancora possibile mandare a scuola i figli piccoli da soli perché durante il tragitto vengono controllati da tantissime persone che li sorvegliano. “Questa è ancora una piccola realtà dove ci conosciamo tutti, e tutti vogliamo il bene di tutti”, sentenzia con voce convinta e rilassata. Sembra una persona pacata e decisa, proprio come immaginiamo siano i siberiani, e non esitiamo a crederle. Anna non aveva figli e non abitava qui a quel tempo, ma vive pienamente in una collettività che ha subito una strage, le sue stesse amiche hanno perso parenti ed amici, ed empaticamente non può esimersi dal condividere il dolore che ancora oggi aleggia nei loro cuori.

Torniamo nella palestra un’ultima volta con due madri che tengono molto a mostrarci le foto delle loro povere creature, amiche di un’infanzia congelata nel tempo. Probabilmente è difficile parlare di un tale dolore, lo sanno tutti che un genitore non dovrebbe sopravvivere ai propri figli, e forse mostrare quelle immagini, condividerle sia pure con degli estranei, serve a lenire un po’ di quella disperazione.

Anna ci spiega che questa gente, con il loro temperamento mite, non condanna i popoli delle regioni da cui provenivano i terroristi, anzi hanno diversi amici tra loro, ma intelligentemente biasima soltanto i fondamentalisti. Ma ciò che chiedono ancora ancora oggi ad alta voce le Madri di Beslan, costituite in associazione, sono quelle risposte che dallo Stato non sono mai arrivate, una tortura nella disgrazia che non rende pace a quelle anime di genitori.

In qualche modo ci sentiamo partecipi, e in qualche modo certamente lo abbiamo dimostrato, così le stesse due donne che ci hanno portato nella palestra propongono di accompagnarci al cimitero dove sono sepolte le vittime della strage.

Il cimitero, curato benissimo, è stato appositamente costruito per custodire esclusivamente le salme della strage. Non tutti sono stati sepolti qui, alcuni hanno preferito riportare i propri cari nella città natale. Incredibilmente questo è divenuto un luogo di fratellanza dove le lapidi sono rivolte secondo i dettami della religione del defunto, ma sono tutte uguali e consacrate nella medesima terra. Si dice che il tempo curi ogni cosa, non qui. Sembra privo di senso, eppure qualcuno passa ancora qui le giornate, abbracciando e baciando una tomba prima di andarsene, la chiamano Gorod Angelou, la Città degli Angeli.